essere italiana. essere polacca.

Non so più quanti anni erano che non trascorrevo il Natale in Polonia. Da piccola spessissimo, poi, cresciuta, c’era il rientro al nido per staccare dall’università, poi il fidanzato, poi la nonna e le zie siciliane, poi il viaggio al caldo e avevo dimenticato tante, troppe cose, di quel mezzo giro di chiocciola che mi porto appresso da 37 anni.

Sfatato il mito del freddo mortale grazie a una temperatura che ha appena sfiorato lo zero (cosa che quando avevo 8 anni uscire di casa era inimmaginabile perché il mercurio scendeva ben sotto i -10 e hai voglia a giocare con le stelle di ghiaccio sui vetri o ad aspettare quando la neve sarebbe caduta dagli alberi… oltre lo zero non saliva mai!) ho affrontato con un degno (seppur forse insufficiente!) cappotto e vari cappelli il problema meteorologico, cercando di riportare il mio stato di cittadina mezza polacca alla normalità. Ci sono riuscita anche se a scapito dei miei bronchi che hanno sofferto per qualche giorno, ma ne è valsa la pena!

Chiaro, ancora memore delle temperature improbabili siciliane e del sole che ti intiepidisce le spalle mentre mangi l’arancina dell’aperitivo, indossare la bardatura anti gelo è deprimente ma anche più consono alla stagione!

Poi ogni volta, tornare in Polonia, per chi come me è una curiosa osservatrice delle usanze locali, è un continuo viaggio che non mi sazia mai ma che alimenta di volta in volta la mia fame.

Fame. Perché mai poi tutta la mia vita ruoti intorno a questa parola un giorno qualcuno dovrà spiegarmelo. Fatto sta che nella mia vita tutto è una ricerca di sazietà che però non arriva mai. Mangio e parlo di quello che mangerò. Parlo e penso a quello di cui parlerò. Trovo qualcosa e cerco qualche altra cosa da trovare. La nonna Antonietta avrebbe detto ” E statti!”. Fermati! Ma come si fa! C’è un mondo da fare cosare brigare spulciare e io sono la maestra della confusione, non c’è che dire.

Ma torniamo alla Polonia. Dicevamo dei suoi usi che mi assorbono totalmente nell’istante in cui scendo dalla scaletta dell’aereo.

il tè nel bicchiere di vetro

le ciabatte pelose dei monti Tatra (ormai da anni sdoganate anche nella casa di Milano e in quella siciliana!)

la tavola del pranzo delle 15 (!) imbandita fino a prima sera

l’alternanza di dolce e salato nei piattini e il loro continuo cambio da parte di premurosissime padrone di casa simili ad affannose suocere napoletane

la cortesia della gente fuori dal comune

lo scambio dell’ostia (oplatek)

il tè come unica fonte di idratazione (oppure la vodka. a piacere.)

i Kolendy (i canti natalizi che tutti conoscono e cantano bypassando totalmente la globalizzata Mariah Carey)

la colazione salata con le aringhe e la cipolla, i parowki e i cetrioli (!)

la zia Ala che alle 9.30 del mattino ti chiede se vuoi assaggiare il liquore alle prugne fatto con le sue mani (e tu che lo bevi, sia mai s’offenda!)

poi c’è lui, il mio amato pane e burro, da morirci.

E quel profumo di carbone che mi riempiva le narici da bambina, spinto dal freddo pungente che tentava di entrare da qualunque parte del mio corpo, e che oggi non si sente quasi più. Qualcuno potrebbe esclamare un “per fortuna”,  ma se nella vita di ognuno di noi i ricordi vengono fuori nei momenti più impensati grazie a suoni, colori, sapori e odori, l’assenza di un odore che ha caratterizzato la mia infanzia mi lascia un velo di tristezza. E la paura di un grande vuoto.

Insomma: una confusione che la metà basta.

Legata al caldo, in cerca del freddo.

Amante della brioche che insegue il ricordo dell’insalata di aringhe.

Confusionaria e strabordante, spesso chiusa a doppia mandata con i propri pensieri.

Pelle delicata in un paese di epidermidi coriacee.

Il tè al mattino al posto del caffè.

E così via per mille altre cose.

Eppure io così ci sto proprio bene: una confusione italiana e un ordine polacco che cercano di equilibrare costantemente qualcuna che forse, tanto equilibrata non sarebbe 🙂

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